Tratto da una storia vera.
Un noto artista riceve sul suo sito una mail da un fan. Il fan sostiene di aver chiamato una radio per richiedere il nuovo singolo dell'artista, richiesta alla quale è impossibile per la radio provvedere in quanto - a detta loro - sprovvista del disco in oggetto.
L'artista telefona al suo discografico. Il discografico ricorda bene di aver inviato il disco, la cosa gli pare strana. Così decide di chiamare la radio.
La responsabile viene informata dell'accaduto. Alla richiesta di spiegazioni da parte del discografico, ebbene si, ammette di avere il disco sulla propria scrivania, ma di non aver provveduto alla richiesta dell'ascoltatore in quanto il brano "non è in target con il nostro pubblico".
Ovvero: non importa cosa il pubblico richiede, noi sappiamo che cosa non va bene che ascoltino.
E da Radio Regime anche per oggi è tutto.
VITTORIA DI PIRRO
Nella guerra all'ultimo respiro dichiarata al P2P dall'industria dell'intrattenimento la notizia della vittima eccellente eDonkey (dopo Napster, la rete Kazaa, il software di Grokster, WinMX e la capitolazione di BitTorrent) ha fatto scalpore.
Ma cosa è davvero cambiato ?
Soltanto una cosa: ovvero che un altro protagonista di primaria importanza nella storia della rivoluzione digitale ha ceduto sotto i colpi della mannaia giudiziaria della RIAA, abbandonando definitivamente la scena. Si tratta di MetaMachine, la società responsabile del software di eDonkey e dell'iniziazione della rete di condivisione, che ha scelto la via del patteggiamento nella causa intentatagli contro dall'associazione dei burosauri americani.
L'accordo con RIAA prevede il pagamento di un'ammenda di 30 milioni di dollari e lo stop alla distribuzione del software utile per connettersi ai peer su eDonkey2000. Difatti il sito di eDonkey2000 non è più raggiungibile, mentre provare ad accedere a eDonkey.com porta alla presentazione a video di un messaggio che recita "La rete non è più disponibile. Se rubi musica o film, infrangi la legge". Viene persino visualizzato l'indirizzo IP della connessione di rete e l'affermazione "Non sei protetto dall'anonimato quando scarichi illegalmente materiale protetto da copyright".
I discografici hanno cantato vittoria: vista l'enorme popolarità della rete eDonkey2000 questa capitolazione viene letta come un colpo durissimo al file-sharing. Ma come è facile immaginare - per chi ha qualche neurone ancora a posto - anche stavolta i burosauri hanno confezionato una panzana che nulla ha a che fare con la realtà.
Ah, i fatti, questi sconosciuti !
Nel corso di questi anni frenetici il P2P ha dimostrato di sapersi reinventare. Esistono già diversi strumenti in grado di camuffare in maniera totale la presenza dell'utente e del suo computer in rete. Uno dei migliori è Relakks, darknet svedese, segno tangibile della prossima rivoluzione dell'anonimato nel file sharing. Lo può rintracciare persino un ragazzino, ma non siamo sicuri che i burosauri siano al corrente della sua esistenza.
Nessun problema, inoltre, sembra affliggere gli ex-utenti dell'asinello. Perchè già da tempo è eMule il client predominante per la connessione alla rete di server centralizzati compatibili con eDonkey2000. Per questo, il file sharing sulla suddetta rete non ha mai subito particolari contraccolpi. Checchè ne dicano i prezzolati analisti al servizio della Preistoria.
Morale della favola: per avere ragione di un asino non basta una legione di burosauri.
Ma cosa è davvero cambiato ?
Soltanto una cosa: ovvero che un altro protagonista di primaria importanza nella storia della rivoluzione digitale ha ceduto sotto i colpi della mannaia giudiziaria della RIAA, abbandonando definitivamente la scena. Si tratta di MetaMachine, la società responsabile del software di eDonkey e dell'iniziazione della rete di condivisione, che ha scelto la via del patteggiamento nella causa intentatagli contro dall'associazione dei burosauri americani.
L'accordo con RIAA prevede il pagamento di un'ammenda di 30 milioni di dollari e lo stop alla distribuzione del software utile per connettersi ai peer su eDonkey2000. Difatti il sito di eDonkey2000 non è più raggiungibile, mentre provare ad accedere a eDonkey.com porta alla presentazione a video di un messaggio che recita "La rete non è più disponibile. Se rubi musica o film, infrangi la legge". Viene persino visualizzato l'indirizzo IP della connessione di rete e l'affermazione "Non sei protetto dall'anonimato quando scarichi illegalmente materiale protetto da copyright".
I discografici hanno cantato vittoria: vista l'enorme popolarità della rete eDonkey2000 questa capitolazione viene letta come un colpo durissimo al file-sharing. Ma come è facile immaginare - per chi ha qualche neurone ancora a posto - anche stavolta i burosauri hanno confezionato una panzana che nulla ha a che fare con la realtà.
Ah, i fatti, questi sconosciuti !
Nel corso di questi anni frenetici il P2P ha dimostrato di sapersi reinventare. Esistono già diversi strumenti in grado di camuffare in maniera totale la presenza dell'utente e del suo computer in rete. Uno dei migliori è Relakks, darknet svedese, segno tangibile della prossima rivoluzione dell'anonimato nel file sharing. Lo può rintracciare persino un ragazzino, ma non siamo sicuri che i burosauri siano al corrente della sua esistenza.
Nessun problema, inoltre, sembra affliggere gli ex-utenti dell'asinello. Perchè già da tempo è eMule il client predominante per la connessione alla rete di server centralizzati compatibili con eDonkey2000. Per questo, il file sharing sulla suddetta rete non ha mai subito particolari contraccolpi. Checchè ne dicano i prezzolati analisti al servizio della Preistoria.
Morale della favola: per avere ragione di un asino non basta una legione di burosauri.
ARRESTATE DAVID BYRNE
E' ormai decisamente trasversale il movimento d'opinione anti-DRM e anti-Apple: mentre in Italia l'associazione Altroconsumo, sull'esempio di altre organizzazioni europee, ha già raccolto 13 mila firme di cittadini che invocano la libera disponibilità della musica acquistata su iTunes, sull'argomento si è levata dagli Stati Uniti un'altra voce autorevole: quella di David Byrne, ex leader dei Talking Heads.
Intervenuto nei giorni scorsi al South by Southwest di Austin con una relazione dall'esplicito titolo "Case discografiche: chi ne ha bisogno?", il celebre musicista ha indicato nel non lontano 2012 "l'anno della svolta", durante il quale le vendite di file digitali supereranno quelle dei cd.
A quel punto le case discografiche si troveranno di fronte a un bivio: concentrare le risorse su megastar alla Beyonce o affinare sinergie e attività di marketing usando la musica registrata come prodotto civetta per vendere altro, per esempio biglietti per concerti e merchandising.
Quanto agli artisti, ha aggiunto, la situazione non li favorisce: nonostante l'azzeramento virtuale dei costi di produzione e di distribuzione, dalle vendite di canzoni su iTunes e sugli altri negozi di musica digitale ottengono le stesse, se non meno royalties che incassano dai cd. Ma guarda un pò che strano...
Come uscire dall'impasse? Allearsi a etichette più "artist friendly" o arrangiarsi da soli, sempre che si possa contare già su una fan base, dandosi anche da fare con i nuovi mezzi che la tecnologia mette a disposizione: YouTube, ad esempio, "che a un artista offre più possibilità di Mtv".
Per finire, arriva qualche riflessione dalla parte dei consumatori e l'attacco al DRM: Byrne ha ammesso che, quando non si rivolge a siti come eMusic, si procura musica anche illegalmente, dicendosi costretto dal fatto che i download da iTunes non si possono ascoltare su lettori diversi dagli iPod.
Chissà se i burosauri faranno arrestare anche lui ?
Intervenuto nei giorni scorsi al South by Southwest di Austin con una relazione dall'esplicito titolo "Case discografiche: chi ne ha bisogno?", il celebre musicista ha indicato nel non lontano 2012 "l'anno della svolta", durante il quale le vendite di file digitali supereranno quelle dei cd.
A quel punto le case discografiche si troveranno di fronte a un bivio: concentrare le risorse su megastar alla Beyonce o affinare sinergie e attività di marketing usando la musica registrata come prodotto civetta per vendere altro, per esempio biglietti per concerti e merchandising.
Quanto agli artisti, ha aggiunto, la situazione non li favorisce: nonostante l'azzeramento virtuale dei costi di produzione e di distribuzione, dalle vendite di canzoni su iTunes e sugli altri negozi di musica digitale ottengono le stesse, se non meno royalties che incassano dai cd. Ma guarda un pò che strano...
Come uscire dall'impasse? Allearsi a etichette più "artist friendly" o arrangiarsi da soli, sempre che si possa contare già su una fan base, dandosi anche da fare con i nuovi mezzi che la tecnologia mette a disposizione: YouTube, ad esempio, "che a un artista offre più possibilità di Mtv".
Per finire, arriva qualche riflessione dalla parte dei consumatori e l'attacco al DRM: Byrne ha ammesso che, quando non si rivolge a siti come eMusic, si procura musica anche illegalmente, dicendosi costretto dal fatto che i download da iTunes non si possono ascoltare su lettori diversi dagli iPod.
Chissà se i burosauri faranno arrestare anche lui ?
I DITTATORI DEL GUSTO
Non vi preoccupa il panorama odierno della radiofonia, e la nostra dipendenza da questo sistema ?
Una situazione come quella odierna non si è mai vista. E' un disastro su tutta la linea. La radio è ormai diventata un'entità a sè stante, il cui unico dogma è l'audience. Se si eccettuano pochi casi isolati, fanno tutti la stessa radio, e hanno tutti lo stesso format. I primi 50 brani sul Music Control si sentono in continuazione, e restano in playlist per tempo immemorabile, rallentando il ricambio di musica.
Le statistiche (se vogliamo definire così i dati che ci arrivano da Audiradio) ci dicono che le audiences siano più o meno stabili, o perdano relativamente poco. Può darsi. Quello che però è certo è che i compratori di dischi si stanno allontanando dalla radio. Prova ne è la quantità crescente di successi di classifica che non corrisponde con l'airplay chart. E viceversa. Soprattutto viceversa, oserei dire. Perchè quello che spesso succede - anche costruendo un grande successo - è che l'investimento necessario per produrlo diventa troppo oneroso rispetto ai risultati ottenuti.
Stiamo tutti qui a lamentarci che i dischi non si vendono, ma stiamo veramente facendo qualcosa per cambiare la situazione ? A parte fare causa ai nostri consumatori in attesa di trovare l'idea che renda profittevole il file-sharing, ovvero la radio del futuro ?
Nemmeno le majors, che sostanzialmente controllano quasi il 90% dello spazio riservato alle playlists, possono trarre molto giovamento dal sistema di consolidazione delle playlist promosso dal Music Control. Un sistema di rilevazione è senz'altro utile. Un sistema di rilevazione che diventa il punto di riferimento per consentire anche a un sordo di poter gestire una playlist porta con sè qualcosa di deleterio. Spezzare il fronte delle resistenze dei programmatori sugli artisti emergenti, ad esempio, è diventato un problema colossale. Anche le majors, che talvolta ci riescono (ma a che prezzo?), lo sanno benissimo.
La nouvelle vague comportamentale che contraddistingue l'attuale generazione di programmatori pare essere contagiosa. Raggiungerli al telefono è una corsa ad ostacoli. Farsi richiamare è utopia. Non leggono le e-mail, e se lo fanno non rispondono mai. La loro professionalità è discutibile, la loro affidabilità nulla. Alcuni di loro scompaiono nel nulla a tempo indeterminato. E se tutto questo non fosse già abbastanza, è tristemente noto come presunzione, incompetenza, egocentrismo siano i tratti distintivi principali di molti tra loro.
Un tempo, se raggiungere i networks nazionali era comunque target difficilissimo, le radio locali perlomeno mostravano la volontà di osare, di collaborare: oggi sono le più rigide tra tutte. Se non sono i networks a lanciare un brano spesso non fanno assolutamente nulla. Vivono di riflesso. Succede anche con brani che stanno in top 40 o in top 20. Propositività, differenziazione, rischio sono parole sconosciute per loro.
Poveri discografici. La dittatura è stata ribaltata. Gli servirà ancora fare i cosiddetti "giri di ascolto" dei nuovi brani alle radio ? Ci risulta che sempre più spesso ciò che viene detto face-to-face ai responsabili della promozione durante queste sessioni finisca per non corrispondere con ciò che la radio farà. Uno torna dal suo capo, magari si espone un pò perchè il tal programmatore lo ha rassicurato sull'inserimento in playlist del tal brano, per poi fare una figura imbarazzante nelle successive settimane quando il tal brano non entrerà in playlist. Ma allora perchè perdere tempo ?
E invece no. Perchè i discografici, e i burosauri in particolare, amano perdere tempo. E amano anche buttare soldi. Così non solo finanziano un sistema per controllare l'incontrollabile, ma diventano disposti a tutto pur di assecondarlo, finendo inevitabilmente per perdere di vista ciò che desidera la GENTE.
Oggi la pubblicità in radio non si fa più per promuovere un disco, bensì per indurre i programmatori a inserirlo in playlist. E' diventata una moda tra i geni del buro-marketing. L'intuizione, tuttavia, non sembra avere un futuro promettente. La leggenda infatti narra di diverse campagne do-ut-des rifiutate da note emittenti nazionali perchè, a detta di alcuni, se dovessero accettare tutte le proposte non basterebbe loro il palinsesto di tre radio per onorarle.
A nostro avviso esisterebbe un modo più semplice per mettere le radio in condizione di fare scelte diverse. Un modo sottile, poco doloroso e assai economico.
A un programmatore di una hit radio basta guardare il Music Control per vedere quali siano i 50 brani più suonati del momento. Se non vuole rischiare nulla - e nessuno oggi vuole farlo - non farà altro che suonare i nomi più consolidati nella chart, al massimo arricchendoli con pochissime novità di sicuro richiamo.
L'eliminazione del Music Control gli toglierebbe quindi un punto di riferimento fondamentale.
E' un'idea così assurda ? La discografia paga centinaia di migliaia di euro per rilevare l'andamento dei propri brani in radio, molti dei quali che non avranno mai successo, nè pur avendolo riusciranno a tradurlo in vendite. A che scopo ? Perchè fornire a chi ne trae esclusivo giovamento uno strumento per limitare la differenziazione del mercato, cosa che è invece nell'interesse della discografia ? Perchè, piuttosto, non investire in formule di promozione alternativa ?
Fateci un pensiero. Gli unici due networks del panel del Music Control che operano le proprie scelte sulla base di un'idea di format - e non confrontandosi con la chart - sono Radiouno della Rai e Radio Deejay. La varietà di musica, la propensione verso la proposta, gli orizzonti aperti di queste due realtà non hanno uguali tra le radio del Music Control.
Sarà un caso se sono le due radio più ascoltate in Italia ?
Una situazione come quella odierna non si è mai vista. E' un disastro su tutta la linea. La radio è ormai diventata un'entità a sè stante, il cui unico dogma è l'audience. Se si eccettuano pochi casi isolati, fanno tutti la stessa radio, e hanno tutti lo stesso format. I primi 50 brani sul Music Control si sentono in continuazione, e restano in playlist per tempo immemorabile, rallentando il ricambio di musica.
Le statistiche (se vogliamo definire così i dati che ci arrivano da Audiradio) ci dicono che le audiences siano più o meno stabili, o perdano relativamente poco. Può darsi. Quello che però è certo è che i compratori di dischi si stanno allontanando dalla radio. Prova ne è la quantità crescente di successi di classifica che non corrisponde con l'airplay chart. E viceversa. Soprattutto viceversa, oserei dire. Perchè quello che spesso succede - anche costruendo un grande successo - è che l'investimento necessario per produrlo diventa troppo oneroso rispetto ai risultati ottenuti.
Stiamo tutti qui a lamentarci che i dischi non si vendono, ma stiamo veramente facendo qualcosa per cambiare la situazione ? A parte fare causa ai nostri consumatori in attesa di trovare l'idea che renda profittevole il file-sharing, ovvero la radio del futuro ?
Nemmeno le majors, che sostanzialmente controllano quasi il 90% dello spazio riservato alle playlists, possono trarre molto giovamento dal sistema di consolidazione delle playlist promosso dal Music Control. Un sistema di rilevazione è senz'altro utile. Un sistema di rilevazione che diventa il punto di riferimento per consentire anche a un sordo di poter gestire una playlist porta con sè qualcosa di deleterio. Spezzare il fronte delle resistenze dei programmatori sugli artisti emergenti, ad esempio, è diventato un problema colossale. Anche le majors, che talvolta ci riescono (ma a che prezzo?), lo sanno benissimo.
La nouvelle vague comportamentale che contraddistingue l'attuale generazione di programmatori pare essere contagiosa. Raggiungerli al telefono è una corsa ad ostacoli. Farsi richiamare è utopia. Non leggono le e-mail, e se lo fanno non rispondono mai. La loro professionalità è discutibile, la loro affidabilità nulla. Alcuni di loro scompaiono nel nulla a tempo indeterminato. E se tutto questo non fosse già abbastanza, è tristemente noto come presunzione, incompetenza, egocentrismo siano i tratti distintivi principali di molti tra loro.
Un tempo, se raggiungere i networks nazionali era comunque target difficilissimo, le radio locali perlomeno mostravano la volontà di osare, di collaborare: oggi sono le più rigide tra tutte. Se non sono i networks a lanciare un brano spesso non fanno assolutamente nulla. Vivono di riflesso. Succede anche con brani che stanno in top 40 o in top 20. Propositività, differenziazione, rischio sono parole sconosciute per loro.
Poveri discografici. La dittatura è stata ribaltata. Gli servirà ancora fare i cosiddetti "giri di ascolto" dei nuovi brani alle radio ? Ci risulta che sempre più spesso ciò che viene detto face-to-face ai responsabili della promozione durante queste sessioni finisca per non corrispondere con ciò che la radio farà. Uno torna dal suo capo, magari si espone un pò perchè il tal programmatore lo ha rassicurato sull'inserimento in playlist del tal brano, per poi fare una figura imbarazzante nelle successive settimane quando il tal brano non entrerà in playlist. Ma allora perchè perdere tempo ?
E invece no. Perchè i discografici, e i burosauri in particolare, amano perdere tempo. E amano anche buttare soldi. Così non solo finanziano un sistema per controllare l'incontrollabile, ma diventano disposti a tutto pur di assecondarlo, finendo inevitabilmente per perdere di vista ciò che desidera la GENTE.
Oggi la pubblicità in radio non si fa più per promuovere un disco, bensì per indurre i programmatori a inserirlo in playlist. E' diventata una moda tra i geni del buro-marketing. L'intuizione, tuttavia, non sembra avere un futuro promettente. La leggenda infatti narra di diverse campagne do-ut-des rifiutate da note emittenti nazionali perchè, a detta di alcuni, se dovessero accettare tutte le proposte non basterebbe loro il palinsesto di tre radio per onorarle.
A nostro avviso esisterebbe un modo più semplice per mettere le radio in condizione di fare scelte diverse. Un modo sottile, poco doloroso e assai economico.
A un programmatore di una hit radio basta guardare il Music Control per vedere quali siano i 50 brani più suonati del momento. Se non vuole rischiare nulla - e nessuno oggi vuole farlo - non farà altro che suonare i nomi più consolidati nella chart, al massimo arricchendoli con pochissime novità di sicuro richiamo.
L'eliminazione del Music Control gli toglierebbe quindi un punto di riferimento fondamentale.
E' un'idea così assurda ? La discografia paga centinaia di migliaia di euro per rilevare l'andamento dei propri brani in radio, molti dei quali che non avranno mai successo, nè pur avendolo riusciranno a tradurlo in vendite. A che scopo ? Perchè fornire a chi ne trae esclusivo giovamento uno strumento per limitare la differenziazione del mercato, cosa che è invece nell'interesse della discografia ? Perchè, piuttosto, non investire in formule di promozione alternativa ?
Fateci un pensiero. Gli unici due networks del panel del Music Control che operano le proprie scelte sulla base di un'idea di format - e non confrontandosi con la chart - sono Radiouno della Rai e Radio Deejay. La varietà di musica, la propensione verso la proposta, gli orizzonti aperti di queste due realtà non hanno uguali tra le radio del Music Control.
Sarà un caso se sono le due radio più ascoltate in Italia ?
PAY TO PLAY
Ammettetelo, ve lo siete sempre domandati tutti. Le case discografiche pagano le radio affinchè infoltiscano le proprie playlist con i brani da loro prescelti ?
Esiste una sola risposta a questo quesito: non è forse evidente ?
In America questa pratica si chiama “payola”, ed è illegale dal 1960. La discografia, però, non ha mai resistito alla tentazione di riesumarla. Lo ha fatto per ben tre volte nel giro di mezzo secolo: chissà quante altre volte succederà ancora. Le cose proibite, in fondo, sono quelle che più ci affascinano.
Lo scorso febbraio, l'avvocato dello Stato di New York Eliot Spitzer ha aperto un procedimento giudiziario per denunciare i pagamenti sottobanco ricevuti dalle radio americane da parte delle case discografiche. Brani di artisti come Jennifer Lopez, Celine Dion, Maroon 5, Franz Ferdinand e R.E.M sono finiti sotto inchiesta. In cambio di passaggi radiofonici preferenziali, le multinazionali hanno "investito" consistenti risorse per assicurarsi il sostegno delle principali emittenti radiofoniche. Per ogni brano si calcola che sia stato "investito" un equivalente in denaro compreso tra i 100 e i 500 mila dollari.
Eppure, al loro terzo tentativo, i managers delle multinazionali del disco avevano provato a farsi più furbi. Basta bustarelle nelle copertine degli albums o dei 12” inviati ai dee-jays. Basta con recapiti a domicilio di materiale promozionale da parte di atletiche biondone con la sesta di reggiseno. Basta bustine di cocaina nascoste dentro il pratico jewel box dei cd promo. Le bustarelle del nuovo millennio hanno la forma di premiums. Davvero molto moderno.
Ma di quali contropartite stiamo parlando ? Parliamo di favori e regali, ovviamente. Di concorsi esclusivi, di investimenti pubblicitari, di operazioni commerciali, di offerte di pacchetti-vacanza, persino di biglietti per la finale del Superbowl... E’ significativo il caso di Celine Dion: per suonare il suo “I Drove All Night”, ai programmatori delle radio veniva offerto un weekend gratis per due persone a Las Vegas. Ci pensate ? Le case discografiche intrattengono i programmatori delle radio, affinchè intrattengano a loro volta il pubblico con musica accuratamente "preselezionata"… Lo vedete, come funziona la grande catena dell’intrattenimento ?
Stavolta però le majors, una dopo l’altra, hanno ammesso immediatamente le loro responsabilità. Se la sono cavata con un patteggiamento, e una multicina piccina piccina. La Sony BMG, ad esempio, ha accettato di pagare una multa di 10 milioni di dollari, anziché andare per vie legali. Una cifra irrisoria, se paragonata al fatturato generato grazie al payola, valutabile nell’ordine di centinaia di milioni di dollari.
Dopo lo scoppio del nuovo scandalo, sono stati diversi gli operatori del settore europei - chiamati in causa in numerose interviste ed uscite pubbliche - ad affrettarsi a delimitare l’adozione di questa pratica al confine americano. La maggioranza dei mercati del Vecchio Continente, secondo loro, sarebbe di dimensioni troppo poco significative per pensare di correre rischi del genere. Che strano. Da noi in Italia, per esempio, il payola esiste eccome. Ed è una forma d’arte piuttosto creativa.
Una delle pratiche che vanno per la maggiore nel nostro Paese, ad esempio, è quella della cessione di punti editoriali come contropartita. Società di edizioni collegate ai gruppi radiofonici acquisiscono percentuali sui diritti di pubblica esecuzione legati a determinate canzoni, in cambio di una programmazione massiccia. Naturalmente, più passaggi vengono dati ai singoli brani, più l’introito per le radio aumenta. Un meccanismo molto ben congeniato, al quale si sono prestati nel tempo fior fiore di artisti. Da Ligabue agli Zero Assoluto.
Vi sorprende ? Non credo. Basta ascoltare cosa suonano le radio, e quanto lo suonino, per capire che c’è qualcosa di anomalo nel loro funzionamento. Ciò che invece è davvero sorprendente, è che nel nostro Paese NON ESISTE UNA LEGGE che impedisca a certi soggetti di stringere questo genere di accordi.
Naturalmente, ci sono canzoni “di successo” che godono di un trattamento privilegiato in maniera del tutto spontanea. Le radio hanno i loro criteri selettivi, e non sono certo disposte a rischiare di perdere ascolti per promuovere artisti e repertori estranei ai “valori” che desiderano veicolare. Difficilmente, perciò, i Korn passeranno mai su radio come RTL o RDS: anche di fronte a proposte indecenti. Il corollario di questa situazione è che il payola non è sufficiente per ottenere con certezza l’appoggio delle radio. Ecco perchè non ha preso piede da noi, come invece è successo negli USA.
Ma esiste anche un motivo migliore, che fotografa chiaramente quale sia la posizione della discografia in questa sceneggiata. La verità è che le bustarelle alle radio sono diventate un pessimo affare: sia per i discografici (dal momento che il mercato dei supporti fisici attraversa una clamorosa fase involutiva) che per le radio (che guadagnano molto di più dalla raccolta pubblicitaria su altri settori merceologici).
Riassumendo: sono finiti persino i soldi per corrompere. Forse è per questo che i visionari della grande industria contemporanea si stanno orientando verso la produzione di contenuti ad hoc per i media generalisti.
Certo, è diverso dal corrompere i programmatori.
E’ più come fabbricargli le scarpe su misura.
Esiste una sola risposta a questo quesito: non è forse evidente ?
In America questa pratica si chiama “payola”, ed è illegale dal 1960. La discografia, però, non ha mai resistito alla tentazione di riesumarla. Lo ha fatto per ben tre volte nel giro di mezzo secolo: chissà quante altre volte succederà ancora. Le cose proibite, in fondo, sono quelle che più ci affascinano.
Lo scorso febbraio, l'avvocato dello Stato di New York Eliot Spitzer ha aperto un procedimento giudiziario per denunciare i pagamenti sottobanco ricevuti dalle radio americane da parte delle case discografiche. Brani di artisti come Jennifer Lopez, Celine Dion, Maroon 5, Franz Ferdinand e R.E.M sono finiti sotto inchiesta. In cambio di passaggi radiofonici preferenziali, le multinazionali hanno "investito" consistenti risorse per assicurarsi il sostegno delle principali emittenti radiofoniche. Per ogni brano si calcola che sia stato "investito" un equivalente in denaro compreso tra i 100 e i 500 mila dollari.
Eppure, al loro terzo tentativo, i managers delle multinazionali del disco avevano provato a farsi più furbi. Basta bustarelle nelle copertine degli albums o dei 12” inviati ai dee-jays. Basta con recapiti a domicilio di materiale promozionale da parte di atletiche biondone con la sesta di reggiseno. Basta bustine di cocaina nascoste dentro il pratico jewel box dei cd promo. Le bustarelle del nuovo millennio hanno la forma di premiums. Davvero molto moderno.
Ma di quali contropartite stiamo parlando ? Parliamo di favori e regali, ovviamente. Di concorsi esclusivi, di investimenti pubblicitari, di operazioni commerciali, di offerte di pacchetti-vacanza, persino di biglietti per la finale del Superbowl... E’ significativo il caso di Celine Dion: per suonare il suo “I Drove All Night”, ai programmatori delle radio veniva offerto un weekend gratis per due persone a Las Vegas. Ci pensate ? Le case discografiche intrattengono i programmatori delle radio, affinchè intrattengano a loro volta il pubblico con musica accuratamente "preselezionata"… Lo vedete, come funziona la grande catena dell’intrattenimento ?
Stavolta però le majors, una dopo l’altra, hanno ammesso immediatamente le loro responsabilità. Se la sono cavata con un patteggiamento, e una multicina piccina piccina. La Sony BMG, ad esempio, ha accettato di pagare una multa di 10 milioni di dollari, anziché andare per vie legali. Una cifra irrisoria, se paragonata al fatturato generato grazie al payola, valutabile nell’ordine di centinaia di milioni di dollari.
Dopo lo scoppio del nuovo scandalo, sono stati diversi gli operatori del settore europei - chiamati in causa in numerose interviste ed uscite pubbliche - ad affrettarsi a delimitare l’adozione di questa pratica al confine americano. La maggioranza dei mercati del Vecchio Continente, secondo loro, sarebbe di dimensioni troppo poco significative per pensare di correre rischi del genere. Che strano. Da noi in Italia, per esempio, il payola esiste eccome. Ed è una forma d’arte piuttosto creativa.
Una delle pratiche che vanno per la maggiore nel nostro Paese, ad esempio, è quella della cessione di punti editoriali come contropartita. Società di edizioni collegate ai gruppi radiofonici acquisiscono percentuali sui diritti di pubblica esecuzione legati a determinate canzoni, in cambio di una programmazione massiccia. Naturalmente, più passaggi vengono dati ai singoli brani, più l’introito per le radio aumenta. Un meccanismo molto ben congeniato, al quale si sono prestati nel tempo fior fiore di artisti. Da Ligabue agli Zero Assoluto.
Vi sorprende ? Non credo. Basta ascoltare cosa suonano le radio, e quanto lo suonino, per capire che c’è qualcosa di anomalo nel loro funzionamento. Ciò che invece è davvero sorprendente, è che nel nostro Paese NON ESISTE UNA LEGGE che impedisca a certi soggetti di stringere questo genere di accordi.
Naturalmente, ci sono canzoni “di successo” che godono di un trattamento privilegiato in maniera del tutto spontanea. Le radio hanno i loro criteri selettivi, e non sono certo disposte a rischiare di perdere ascolti per promuovere artisti e repertori estranei ai “valori” che desiderano veicolare. Difficilmente, perciò, i Korn passeranno mai su radio come RTL o RDS: anche di fronte a proposte indecenti. Il corollario di questa situazione è che il payola non è sufficiente per ottenere con certezza l’appoggio delle radio. Ecco perchè non ha preso piede da noi, come invece è successo negli USA.
Ma esiste anche un motivo migliore, che fotografa chiaramente quale sia la posizione della discografia in questa sceneggiata. La verità è che le bustarelle alle radio sono diventate un pessimo affare: sia per i discografici (dal momento che il mercato dei supporti fisici attraversa una clamorosa fase involutiva) che per le radio (che guadagnano molto di più dalla raccolta pubblicitaria su altri settori merceologici).
Riassumendo: sono finiti persino i soldi per corrompere. Forse è per questo che i visionari della grande industria contemporanea si stanno orientando verso la produzione di contenuti ad hoc per i media generalisti.
Certo, è diverso dal corrompere i programmatori.
E’ più come fabbricargli le scarpe su misura.
UNIVERSAL VS. MYSPACE
Se siete tra quelli che pensano che le majors avessero già toccato il fondo, ricredetevi.
Notizie recenti ci informano che la più grande corporation del disco al mondo, ovvero Universal Music, ha citato in tribunale MySpace per violazione del copyright, sostenendo che il sito incoraggia e favorisce il libero uploading e la condivisione di materiale di proprietà della Universal.
Tira aria strana da quelle parti. Il CEO Doug Morris, di recente, si è spinto oltre ogni immaginazione, definendo "ladri" i proprietari di iPod. Siamo tutti dei ladri, amici ! Secondo Morris, inoltre, compagnie come la Apple sarebbero responsabili del fatto che milioni di persone comprino il benedetto aggeggio per ascoltarvi la musica illegalmente scaricata tramite i networks di file sharing e altri darknets.
Che stupidi, noi che abbiamo pensato che la cosa dipendesse dal fatto che la gente sia stata per quasi un secolo soggiogata dal mantra del prodotto, obbligata ad acquistare albums a prezzi esorbitanti per ascoltare musica scadente, asfissiata dal marketing ossessivo e sensazionalista iniettatole a forza tramite i grossi media, annoiata a morte dall'omologazione delle proposte. Invece è tutta colpa della Apple (la prima azienda al mondo a permettere il downloading legale di musica a pagamento), o di MySpace (il principale propulsore della scena musicale indipendente odierna).
Questa vicenda mi ricorda fin troppo facilmente il caso-Napster. E' evidente che a certa gente non ha insegnato NULLA. Ma la cosa più preoccupante è un'altra. Col suo atteggiamento, la Universal dimostra ancora una volta quanto le grosse corporations vogliano ostacolare la cultura della condivisione, che è invece il motore nonchè la linfa vitale della nuova generazione di consumatori di musica.
Senza MySpace non sarei mai potuto venire a conoscenza di molti artisti di cui ho acquistato i cd o scaricato i brani su iTunes, semplicemente perchè nè la radio nè le tv tematiche concedono a queste realtà uno spazio. Per chi fa il mio lavoro, inoltre, MySpace è una risorsa utilissima per restare in contatto col mondo reale, che è molto diverso da quello che si discute nelle riunioni di marketing. Credetemi, posso dirlo per esperienza.
La Universal, come molte majors, sostiene che le loro azioni sono rivolte a "proteggere" la proprietà intellettuale dei loro assistiti. E' però risaputo che la royalty media incassata da un artista sotto contratto major su ciascun file digitale venduto corrisponda all'incirca a 6 cents. Moltiplicandoli per i 10 brani di un album, verrebbe fuori un totale di 60 cents. La royalty media di mercato per il supporto fisico, nel caso di un album su major, è invece di circa 1,50 € per copia venduta.
Un amico, una volta, mi ha mostrato il suo contratto con una major. Ho trovato curioso che prevedesse una clausola che riduceva del 40% la base di calcolo della royalty sulle vendite digitali, a causa di "deduzioni per il packaging". Qualche poveretto, in quell'azienda, starà ancora cercando di spiegare a qualcuno come si "impacchettino" i files mp3 ?
Grazie al boom del download a pagamento e legale, quindi, la Universal - così come tutte le altre majors - ha trovato un modo di restringere ulteriormente la fetta di torta riservata ai legittimi inventori, creatori, ed esecutori delle opere da loro vendute. Altro che difesa della proprietà intellettuale.
Mi chiedo soltanto se a gente come Doug Morris non venga mai in mente un inquietante pensiero. Man mano che i guadagni degli artisti major sulle vendite di supporti musicali si avvicinano sempre di più allo zero, e vista l'attuale carenza di spazi per essere visibili, che cosa li tratterrà ulteriormente dal pensare di cominciare a regalare la loro musica, se non per altro allo scopo di farsi conoscere ? E vista l'esistenza di siti come MySpace, che consentono loro di promuovere la propria attività direttamente al pubblico, che bisogno può esserci oggi di buttare nel cesso oltre il 90% dei propri potenziali guadagni ?
Fossi nel signor Morris, ecco cosa mi farebbe veramente paura.
Notizie recenti ci informano che la più grande corporation del disco al mondo, ovvero Universal Music, ha citato in tribunale MySpace per violazione del copyright, sostenendo che il sito incoraggia e favorisce il libero uploading e la condivisione di materiale di proprietà della Universal.
Tira aria strana da quelle parti. Il CEO Doug Morris, di recente, si è spinto oltre ogni immaginazione, definendo "ladri" i proprietari di iPod. Siamo tutti dei ladri, amici ! Secondo Morris, inoltre, compagnie come la Apple sarebbero responsabili del fatto che milioni di persone comprino il benedetto aggeggio per ascoltarvi la musica illegalmente scaricata tramite i networks di file sharing e altri darknets.
Che stupidi, noi che abbiamo pensato che la cosa dipendesse dal fatto che la gente sia stata per quasi un secolo soggiogata dal mantra del prodotto, obbligata ad acquistare albums a prezzi esorbitanti per ascoltare musica scadente, asfissiata dal marketing ossessivo e sensazionalista iniettatole a forza tramite i grossi media, annoiata a morte dall'omologazione delle proposte. Invece è tutta colpa della Apple (la prima azienda al mondo a permettere il downloading legale di musica a pagamento), o di MySpace (il principale propulsore della scena musicale indipendente odierna).
Questa vicenda mi ricorda fin troppo facilmente il caso-Napster. E' evidente che a certa gente non ha insegnato NULLA. Ma la cosa più preoccupante è un'altra. Col suo atteggiamento, la Universal dimostra ancora una volta quanto le grosse corporations vogliano ostacolare la cultura della condivisione, che è invece il motore nonchè la linfa vitale della nuova generazione di consumatori di musica.
Senza MySpace non sarei mai potuto venire a conoscenza di molti artisti di cui ho acquistato i cd o scaricato i brani su iTunes, semplicemente perchè nè la radio nè le tv tematiche concedono a queste realtà uno spazio. Per chi fa il mio lavoro, inoltre, MySpace è una risorsa utilissima per restare in contatto col mondo reale, che è molto diverso da quello che si discute nelle riunioni di marketing. Credetemi, posso dirlo per esperienza.
La Universal, come molte majors, sostiene che le loro azioni sono rivolte a "proteggere" la proprietà intellettuale dei loro assistiti. E' però risaputo che la royalty media incassata da un artista sotto contratto major su ciascun file digitale venduto corrisponda all'incirca a 6 cents. Moltiplicandoli per i 10 brani di un album, verrebbe fuori un totale di 60 cents. La royalty media di mercato per il supporto fisico, nel caso di un album su major, è invece di circa 1,50 € per copia venduta.
Un amico, una volta, mi ha mostrato il suo contratto con una major. Ho trovato curioso che prevedesse una clausola che riduceva del 40% la base di calcolo della royalty sulle vendite digitali, a causa di "deduzioni per il packaging". Qualche poveretto, in quell'azienda, starà ancora cercando di spiegare a qualcuno come si "impacchettino" i files mp3 ?
Grazie al boom del download a pagamento e legale, quindi, la Universal - così come tutte le altre majors - ha trovato un modo di restringere ulteriormente la fetta di torta riservata ai legittimi inventori, creatori, ed esecutori delle opere da loro vendute. Altro che difesa della proprietà intellettuale.
Mi chiedo soltanto se a gente come Doug Morris non venga mai in mente un inquietante pensiero. Man mano che i guadagni degli artisti major sulle vendite di supporti musicali si avvicinano sempre di più allo zero, e vista l'attuale carenza di spazi per essere visibili, che cosa li tratterrà ulteriormente dal pensare di cominciare a regalare la loro musica, se non per altro allo scopo di farsi conoscere ? E vista l'esistenza di siti come MySpace, che consentono loro di promuovere la propria attività direttamente al pubblico, che bisogno può esserci oggi di buttare nel cesso oltre il 90% dei propri potenziali guadagni ?
Fossi nel signor Morris, ecco cosa mi farebbe veramente paura.
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